Intervista realizzata da Matteo Corona
Scrivo questo articolo in maniera differente dagli altri. E faccio subito presenti le motivazioni. Fabio Capello l’ho sempre ammirato, fin da quando avevo cinque anni, l’eta in cui più o meno ho iniziato ad amare questo sport. Mi ricordo di lui come una sorta di genitore severo ma buono d’animo, che usa il pugno duro quando è necessario senza farsi scrupoli. Un vero condottiero in panchina, un trascinatore, un saggio capace di dominare ed incidere in alcuni dei più grandi templi del calcio: il Santiago Bernabéu, San Siro, l’Olimpico ecc… Mi ricordo di quando, come tanti miei coetanei, collezionavo le figure Panini e, trovata la sua di figurina, esultavo come avessi trovato quella di Ronaldo il Fenomeno, Francesco Totti, Paolo Maldini ecc… Insomma, questo per far capire che, ad una certa età, un bambino stravede maggiormente per i grandi attaccanti/fantasisti. Ho sempre avuto però un’ammirazione particolare nei confronti di Don Fabio.
L’intervista con uno degli allenatori più vincenti di sempre è stata piacevole e gratificante. Non potevo non iniziare con un piccolo aneddoto che mi porto dietro da più di venti anni. Anche se interessa fino ad un certo punto, la mia prozia, ex ostetrica, ha contribuito alla nascita del figlio di Capello, Pier Filippo. Quando gli racconto l’episodio, grazie alla sua memoria di ferro mi corregge immediatamente: “Giusto, però all’epoca non si chiamava clinica Columbus - come si chiama oggi - ma Clinica Moscati”.
A mio avviso - anche se non devo certo affermarlo io - Don Fabio è stato uno degli allenatori più capaci tatticamente parlando, abilissimo nel sintetizzare nelle sue più grandi “opere" la concretezza e la coesistenza tra i vari campioni, non facendo mai mancare quella spumeggiante energia e quel frizzante dinamismo idonei a far compiere grandi gesta in Europa. È entrato nella storia di alcuni dei più prestigiosi club al mondo, e lo ha fatto sempre con una mentalità ben definita e ricca di disciplina, semplicemente vincente. La sua sapiente flessibilità gli ha permesso di capire e comprendere i diversi modi di interpretare il calcio.
Di seguito l’intervista.
Lei ha avuto una carriera gloriosa da allenatore. Molti dei suoi calciatori lo hanno sempre definito come un eccelso comunicatore. Tutt’ora in televisione, riesce a far recepire i suoi concetti in maniera chiara e diretta, senza fronzoli. La capacità comunicativa, soprattutto nelle squadre costellate da campioni, può essere considerata il valore aggiunto nel compattare queste personalità? Ad esempio prendendo in considerazione i momenti più delicati dell’arco di una stagione…
“Io penso una cosa: bisogna essere in grado di trovare le parole adatte nel momento giusto, quando devi esporre i tuoi pensieri e i tuoi problemi, e magari devi recuperare le persone. Non deve essere mai una cosa troppo lunga, ritengo che è necessario essere attenti e diretti nelle parole che si pronunciano. Nel gruppo è importante che ogni componente entri in sintonia con quello che tu dici, capendo dove si vuole arrivare. Questo è fondamentale”.
In tanti grandi allenatori ed ex calciatori sostengono che ormai si è perso il “contatto con la strada”. Prima bambini e ragazzi passavano intere ore il pomeriggio a giocare nel campetto vicino casa, o comunque direttamente sull’asfalto, dove si facevano le ossa e forgiava il carattere. Il venir meno di questi aspetti, seguendo sempre il pensiero di tanti celebri personaggi calcistici, ha fatto sì che non si “sviluppassero” più campioni in maniera frequente, come invece accadeva nelle generazioni precedenti. Lei è d’accordo con questa tesi?
“Non c’è dubbio che sia così. Tuttavia sono tanti gli aspetti da analizzare. Già lasciare il proprio figlio per strada non è più sicuro come una volta. Non c’è più la possibilità di trovare, come prima, un gruppo elevato che voglia divertirsi giocando a pallone per strada. Forse accade solo nei piccoli paesi e in qualche comunità. Adesso appena si ha la possibilità, si manda il figlio nelle scuole calcio, a basket o a nuoto. Diciamo che molti campetti sono nati anche grazie alla classica parrocchia, che è stata una bellissima scuola per tanti. Un’altra cosa molto importante, è che ormai a 10 anni tutti hanno già il telefonino. Purtroppo tanti ci trascorrono intere ore, e preferiscono rimanere incollati al cellulare a giocare anziché praticare sport”.
Nelle sue più grandi vittorie, ogni volta che raggiungeva l’apice, quale era la prima cosa che Le veniva in mente? C’è un trofeo, non necessariamente i più importanti, che ricorda con maggior piacere?
“L’obiettivo è sempre stato quello di vincere trofei. Appena ne vinci uno pensi immediatamente al successivo. Io ho sempre dedicato tutto alla mia famiglia, ai giocatori che hanno lottato per trionfare e alle società con cui ho lavorato. Il mio concetto di vittoria era una condivisione con tutte queste componenti”.
Nell’autobiografia di Francesco Totti, scritta insieme ad uno dei migliori giornalisti italiani, Paolo Condò, mi è rimasto particolarmente impresso un episodio. Andando al nocciolo: Totti racconta che, durante il vostro primo incontro a Trigoria da allenatore della Roma, Lei lo convoca il giorno seguente per un colloquio personale. Ovviamente, essendo il capitano dei giallorossi, era il primo sulla sua lista. Totti descrive l’accaduto sottolineando il rispetto che nutriva nei suoi confronti, e in quegli instanti si sentiva quasi in soggezione. Lei, invece, dopo averci parlato, che sensazioni ha provato?
“Mi è sembrato che avesse capito in pieno dove potevamo arrivare e dove volevamo arrivare. Come ho detto prima, io ho sempre condiviso i miei concetti con i giocatori e con lo staff, impostando la mia visione sull’unione. Tu devi portare le tue idee all’interno del gruppo, ma se non vieni seguito e se non hai a disposizione dei leader in campo che trasmettono questa voglia e determinazione, aiutandoti a mettere in pratica in partita quello che si prova in allenamento, tutte le tue idee falliscono. Io penso che sia fondamentale trovare questa tipologia di calciatori. Il mio compito principale era proprio quello di riuscire a trasmettere la voglia di vincere”.
Un altro episodio dell’autobiografia, particolarmente significativo, è il racconto della vostra sconfitta a San Siro, l’anno dello scudetto. Perdete 3-2 col Milan, giocando bene. Le cose, però, non girano nella maniera giusta. Lei sapientemente e astutamente, si congratula della prestazione con la squadra, ma confida ai suoi uomini che in conferenza stampa avrebbe “finto” con i giornalisti che qualche tassello non girava, per far credere agli avversari che foste in difficoltà. Cosa assolutamente non vera, visto lo stato d’animo determinato e consapevole dei propri mezzi dei giallorossi. Ci spiega meglio cosa pensava in quei momenti?
“Quella partita lì me la ricordo molto bene. Dico la verità, in quel momento resi noto alla squadra un pensiero ben evidente. Ovvero, al termine del match col Milan dissi loro che avevo capito che avremmo vinto lo scudetto. Li vedevo abbacchiati per la sconfitta. Pronunciai esattamente questa parole: ragazzi, sono contento. Oggi ho capito che possiamo vincere il campionato, siamo competitivi. Adesso dirò alla stampa che sono arrabbiato, ma voi sappiate che non è così”.
Per chiudere. Gigi Buffon ha da poco compiuto 44 anni. Un altro suo ex calciatore, Ibraihmovic, sta continuando a far vedere cose di un certo spessore. “Vecchi giovani”, mi passi il termine, con un’energia ammirevole che trasmettono gioia e tanto entusiasmo…
“Sono degli esempi. Si allenano sempre in maniera impeccabile e professionale, non si accontentano mai. Fisicamente non hanno più la brillantezza di anni fa, ma è la voglia di stare in campo a fare la differenza. L’odore dell'erba quando smetti ti manca. Il desiderio di calpestare questa erba ti stimola a continuare a fare la differenza”.
SI RINGRAZIA FABIO CAPELLO PER L'INTERVISTA. I TESTI DI FOOTBALLSTATION.IT, POSSONO ESSERE RIPRESI PREVIA CITAZIONE DELLA FONTE.